domenica 2 agosto 2009

IL CASSETTO DEI RICORDI (1994)

"Ma forse non è una buona idea girarsi a
guardare, è così in tutte le storie...
E se ti dai tempo per un'ultima riflessione,
forse è per dedicarla a dei fantasmi..."
Stephen KING
 
"E adesso che mi hanno scolpito
in lacrime sull'Arco di Traiano,
con un cucchiaio di vetro scavo
nella mia storia...
Ma colpisco un po' a casaccio
perché non ho più memoria...!"
Fabrizio DE ANDRE'



EARTH/2 (sistema d’Aldebaran): XXXVIII Secolo, un giorno qualunque.
 
 
- Che porcaio! - mormorò Bruno Koran saltando i sacchi verdi della raccolta rifiuti.
Se quello era veramente un museo, doveva esserlo soprattutto della decadenza e del cattivo gusto tipico delle cose fatte dai ciarlatani.
Dette un'occhiata alle locandine stampate (già doveva insospettirsi al fatto che non c'erano video-locandine invece di farsi attirare come un uccello dal sonaglio del crotalo) e si stupì invece di trovare celebrazioni per i ventuno secoli dalla morte di Shakespeare, le date delle conferenze sui diversi aspetti delle teorie sui Mondi Futuri di Asimov ed Heinlein e quelle di una esposizione dei rarissimi scritti originali su carta di riso di P'Ang Yun.
Non sapeva se continuare a credere in una disposizione fatta con malizia per ingannare i visitatori, secondo i metodi classici della ciarlataneria, oppure se ascoltare di nuovo quello strano stimolo psichico che si era impadronito di lui quando aveva visto il giardino poco curato e l'insegna sul cancello aperto: PERGAMON MUSEUM.
Trovarsi in una città così strana e piena di mescolanze, architettoniche ed umane, come Bherleen gli aveva dato insolite emozioni fin dal primo giorno trascorso in giro per le sue strade, costruite secondo precisi canoni terrestri; quando rifletteva sul nome del pianeta, EARTH/2, non trovava più tanto strano che esistessero città come quella, mausoleo perenne eretto in nome di altri mausolei umani formati altrove nello spazio, tanti secoli prima (ma di maggiore ed indubbia classe!).
Era entrato e dopo aver attraversato il giardino (una volta forse maestoso, ad onta dei quattordici alberi abbattuti di recente...), si era trovato di fronte il grande ingresso del museo, con l'androne punteggiato dai sacchetti dei rifiuti e con null'altro di umano a dare segno di sé.
- C'è nessuno? - urlò cercando un campanello, un avvisatore, un videocitofono per il custode (ma "video", nel senso tecnologico, non era una parola che si adattava molto all'ambiente, salvo si fosse fatta una mostra sui Latini e la loro cultura. Eppure lì ci si andava proprio per "vedere"...).
- Chi è? - gli fu chiesto dall'alto delle scale stile impero.
- Sono un turista... – " O un pollo? " si chiese Bruno subito dopo.
Gli si presentò, a mezza scalinata, un tipo un po’ dimesso, dall'aria però molto seria. Dava l'impressione di essere un vero scienziato o, comunque, qualcuno che aveva dedicato molto tempo della sua vita allo studio (poi magari si scopriva che sapeva tutto sulla magia nera o sulla coltivazione dei ranuncoli...).
- Lei chi sarebbe? - chiese il tipo al turista occasionale.
- Bruno Koran. Volevo visitare il museo... Forse ho sbagliato orario? -
- No: è già aperto. Io sono il direttore: a cosa s’interessa? -
- Ci sono parecchi settori? Non l'avrei detto... - lo sfotté Bruno.
- Ha letto l'insegna fuori? - domandò l’uomo con uno sguardo inquisitore.
- Si. -
- E perché è entrato? - chiese ancora in tono duro.
- Beh, Pergamon Museum mi sembrava un nome in grado evocare capolavori d'arte e altre cose interessanti. - spiegò Koran tornando serio.
- Uhm... Terrestre, vero? - gli domandò l'altro.
- Io? No, tutt'altro... nemmeno di questo pianeta. - precisò Bruno - Comunque vorrei vedere qualcosa di antico... armi nipponiche... sa, quelle strane armature di cuoio con grossi elmi spioventi e quelle spade taglienti come rasoi. -
- Già altri mi hanno dato una risposta come la sua, circa la scelta del museo intendo, e tutti sono poi risultati terrestri e curiosi come lei. Molti di loro avevano anche ricordi interessantissimi e spesso mi sono offerto di comperarglieli. -
Koran lo guardò negli occhi.
- Comprargli i ricordi? -
- Si. Le sembra strano, vero? Per la verità lo sembrava anche agli altri, soprattutto ai reduci delle guerre d'indipendenza che di tanto in tanto punteggiano i notiziari federali. -
- Puttanate! - sbottò Bruno - Avrei voluto vederli contro i Jerras su QUEVOR. Altro che ribelli alla Federazione! -
L'uomo guardò Bruno con aria interessata.
- Ex militare anche lei, eh? Mi venda i suoi ricordi: se lei era su QUEVOR ha visto e vissuto cose che non esistono più... ed i Jerras lo sa bene che non sono tanto aperti agli scambi culturali. -
- Vendergli i miei ricordi? Scherza? - disse Bruno sbigottito.
- Che c'è di strano? E’ una procedura psichica a cui molti si sottopongono, gliel'ho appena detto... naturalmente a condizione che abbiano ricordi interessanti che non riescono più a sopportare. Mica tutti ne possiedono! -
- Che cosa avviene dei ricordi ceduti dai legittimi proprietari? - domandò alla sua strana guida.
- Vengono classificati ed archiviati; i primi tempi mi divertivo a darci un'occhiata io stesso, ma mi creda se le dico che non è il passatempo più riposante per un essere umano... Non ce la faccio più nemmeno a vedere l'inizio dei ricordi di alcuni... -
- Allora a cosa serve tutto questo? -
- Gliel'ho detto: collezioniamo momenti della storia umana che un libro di storia non renderebbe altrettanto bene come la loro registrazione diretta. Alcuni sono anche molto artistici, sa? E soprattutto anche per liberare i loro possessori da spiacevoli episodi della vita. Cose alle quali spesso sono stati costretti. Reduci, ad esempio, passati sotto i metodi psichici totalbrain, caratteristici dei reparti scelti preparati sul Pianeta della Guerra... Lei, a proposito, dov’è stato addestrato? -
- Alla base di Waxghad, sul molto più umano JETRELLAN. Ci sono nato: mio padre era un militare... tradizioni di famiglia, come può capire. Niente metodi psichici in ogni caso... - chiarì Bruno, seguendolo sulla scalinata.
- Lei pensa che questo la renda migliore dei suoi colleghi? Loro erano dei volontari; sapevano cosa gli avrebbero fatto, anche se forse non erano in grado (nemmeno i progettisti lo erano!) di prevedere quello che tutto ciò dopo avrebbe portato loro. Se lei non è stato sottoposto a tali metodi può dirsi fortunato, anche se non le sembra.– fece una pausa come se le scale gli togliessero fiato - Voi militari avete quello che si definisce spirito di corpo: vi fa credere che quello a cui siete stati sottoposti sia la cosa migliore in assoluto che un soldato degno di tale nome possa chiedere nella sua carriera addestrativa, quindi anche per lei sarà difficile prendere in minima considerazione il fatto che un addestramento diverso possa essere pari o addirittura superiore al suo. Mi creda però se le dico che i sopravvissuti alle preparazioni del Pianeta della Guerra avevano proprio...- terminò la frase con un gesto volgare che alludeva alle dimensioni degli organi genitali di detti sopravvissuti.
- Non sempre, mi creda, non sempre. Signor...? - mormorò Bruno in risposta all'affermazione, lasciando andare il ricordo di un suo sottufficiale addestrato proprio con quei metodi.
- Chet Arnasy, facevo l'archeologo in gioventù. - si presentò l'uomo - Comunque quello che le ho detto serve solo per farle venire il sospetto che tutto quello che ha in testa e pensa di sé, potrebbe non avere il benché minimo appiglio ragionevole per farla sentire umanamente superiore ad un altro. -
- Oh, abbiamo un giudice umano, a quanto vedo. - si risentì Bruno.
- La smetta e si sieda su quella poltroncina. Adesso le faccio fare una prova con i suoi ricordi. Proverò a vedere se riesco a sopportarne anch'io la visione senza annoiarmi troppo. Magari veda di non farmi piangere... -
Si girò verso l'ospite con l'intenzione di scoccargli un'ultima occhiata indagatrice, puntandogli la sonda mentale del registra-sogni, ma non incontrò lo sguardo di Bruno; il visitatore era rimasto paralizzato sulla poltroncina, con le mani strette sui braccioli, gli occhi sbarrati, fissi su un quadro alla parete.
Era un dipinto molto reale: cupo nei colori dell'atmosfera e della superficie che veniva rappresentata (preciso in ogni particolare come fosse una fotografia ad alta risoluzione) squarciato al centro dall'esplosione rosso fuoco di un'astronave da combattimento, scoppio che dava un riverbero aranciato alle superfici delle costruzioni diroccate in basso.
" Dovevo immaginarmelo. " brontolò Chet Arnasy " Anche se me n'ero dimenticato di quel quadro! "

* * *

Il caporale Anton Proufer si toccava il casco della tuta da combattimento con un movimento ritmico ed ossessivo della mano sinistra; la destra era invece impegnata a togliere e inserire continuamente la sicura meccanica del suo Colt-Centronics d'ordinanza.
C'era del nervosismo nella squadra d'assalto del maggiore Koran: quattordici uomini che il giovane ufficiale si era scelto accuratamente fra i volontari presentatisi.
Si collegò con l'auricolare del caporale Proufer e gli fece una domanda:
- Senza guardare, caporale! Spara o no, adesso? -
L'uomo si fermò ed ebbe il moto spontaneo di abbassare lo sguardo verso il basso, senza spostare la testa, ma la parte inferiore della gorgiera di kivlex gli impedì di vedere il nottolino della sicura.
- Non lo so, maggiore... – si arrese.
- Allora smettila. - gli suggerì Bruno chiudendo subito dopo il contatto.
C'era invece molta calma negli occhi quasi immobili del sergente maggiore Yoshida: la soldatessa orientale era arrivata nella sua compagnia dopo il trasferimento dai Reparti Avanzati preparati sul famigerato M/2118, il Pianeta della Guerra. Era una reduce sopravvissuta all’unico scontro sostenuto dai reparti speciali nella guerra spaziale contro un'altra razza organizzata: la battaglia era stato un grosso successo tattico e anche una carneficina spaventosa.
Molti di quei reduci si erano dimessi oppure avevano chiesto trasferimenti a reparti più tranquilli. Il sergente Yoshida non aveva avuto molta fortuna: era finita nei Rangers Astrotrasportati e si era trovata di nuovo in prima linea.
In quell'operazione la squadra del maggiore Koran doveva prendere di sorpresa una specie di carcere scoperto proprio dai reparti Avanzati. C'erano prigionieri umani in quelle basse costruzioni e loro dovevano liberarli per farsi raccontare qualcosa di più sui nemici.
La voce del pilota del mezzo d'assalto volante comunicò al maggiore che erano a meno di due minuti dall'obiettivo.
Koran ordinò ai suoi di collegarsi alle sonde elettroniche che penzolavano sopra di loro e di attivarle: poco dopo le tute grigio-cromo dei soldati iniziarono a mutare di colore, adattandosi ai colori esterni analizzati dai sensori dell'astronave e comunicati al micro-computer di controllo di ogni tuta. Adesso gli scafandri, leggeri e resistenti, erano di un cupo grigio/blu tempesta.
- Un minuto. - comunicò il pilota.
Koran fece segno con l'indice sinistro, poi attivò le mire laser del suo Colt-Centronics. L'ultima occhiata fu per il sergente Yoshida, splendida ma fredda come un robot, gli occhi brillanti ma non a fuoco sul portello d'uscita, come se vedesse qualcosa fra sé e la porta, una visione tutta sua...
La donna si flesse leggermente in avanti, spostando i piedi in modo da essere pronta allo scatto verso il portello. Bruno vide il pollice, fasciato dal guanto della tuta, disinserire la sicura del fucile e subito dopo disinserire anche il collegamento automatico con il puntamento del casco.
" Come farà? " si chiese ancora il maggiore, ripensando a quanto il fucile garantiva a loro poveri mortali col puntamento integrato a quello automatico della visiera, cioè una velocità ed una precisione notevoli. Il sergente Yoshida, invece, usava solo le mire ottiche e talvolta nemmeno quelle, eppure colpiva con precisione incredibile e con una frequenza pari al doppio di quanto erano in grado di fare i migliori tiratori fra i suoi Rangers. Per lui, che non aveva avuto l'addestramento totalbrain, quelle sembravano bravate inspiegabili mentre per Yoshida erano quasi naturali.
Bruno ebbe solo il tempo di far scattare, anche lui, la sicura ed il puntamento (e vedere il cerchio rosato al centro della sua visiera), che il portello si aprì e mostrò loro la superficie scabra del pianeta QUEVOR.
Yoshida balzò su dal sedile e Koran ebbe appena la fuggevole visione delle curve del corpo snello ed agile della donna, confuso nel blu tempesta della tuta.
Fuori dal portello c'era la calma elettrica del pianeta e della domanda che girava a tutti in testa: " Ci avranno rilevato durante il volo d’avvicinamento? "
Koran dette appena un'occhiata distratta al cronometro che appariva impresso sulla visiera: erano perfettamente in sincronia con quanto era stato loro insegnato, eccetto il sergente Yoshida che era piuttosto mezzo secondo avanti a tutti.
Shusui Yoshida, la bella.
Shusui, la terribile.
Ricordava il giorno in cui lei era arrivata alla base di raccolta: la divisa (con il nastrino di reduce) in perfetto ordine, gli occhi nascosti da un paio di Agfa scuri, lo zaino portato come fosse vuoto, senza minimamente rallentare il suo passo deciso.
E ricordava anche il sergente Kriix salvato a malapena dalla castrazione per aver tentato di soddisfare le sue pene d'amore (o le semplici voglie di maschio?) assalendo la sua parigrado nella doccia dei sottufficiali.
La doccia del sergente Yoshida... lui ne sapeva qualcosa avendola spiata casualmente durante una libera uscita, prima della partenza per il fronte su QUEVOR.
Era consuetudine per molti soldati cercare compagnia presso le "pleasure dome" delle città vicine alle basi, noleggiando i servizi degli stupendi androidi sterili (per chi non si fidava dei suoi simili) e anche il maggiore Koran non faceva eccezione a tale consuetudine.
Durante la sua permanenza nell'albergo dove alloggiava per il week-end con la sua bella e falsa donna, aveva intravisto dal corridoio, attraverso una porta socchiusa, una divisa riconosciuta subito per quella del sergente maggiore Yoshida.
Incuriosito da quella sorprendente verità (anche la splendida soldatessa dagli occhi a mandorla si lasciava prendere dalle voglie dei sensi!), Bruno aveva fatto capolino nella stanza e non vedendo nessuno aveva appena accennato uno scrupolo prima di lasciarsi guidare verso il suono della doccia, a pochi passi da lui.
L'aveva vista: sola e nuda, intenta a rilassarsi sotto lo scroscio fumante dell'acqua; ligia ad una tradizione della quale portava il marchio inconscio del suo popolo antico: il bagno caldo. Lui era rimasto a guardarla per un po', irretito dalla sua bellezza, poi era fuggito in preda ad una sorta di senso di colpa e un disagio fisico che gli veniva però da dentro.
Non era riuscito a far l'amore con l'androide (eppure ne aveva sognato le attenzioni tutte le notti trascorse prima della licenza), ancora turbato dalla visione del corpo abbronzato di Shusui, dai suoi muscoli appena accennati, dalle proporzioni stranamente poco giapponesi (chissà quali luoghi e quali eredità genetiche c'erano dietro il suo nome nipponico); era riuscito solo a cacciare via l'androide ed a resistere pochi lunghi minuti prima di spiare di nuovo la bella Yoshida durante il suo incontro d'amore.
Bruno credeva di essere diventato di colpo pazzo; forse era la reazione alla notizia di essere stati destinati al fronte e non la visione della donna, a fargli quell'effetto, sperava, ma non riusciva a pensare ad altro; forse Yoshida era solo la scusa trovata dai suoi nervi per tradirlo e mandarlo al diavolo all'ultimo momento...
Poco dopo si era trovato di nuovo alla porta (ancora insolitamente socchiusa) della camera del sergente.
Dentro Yoshida era vestita di una splendida e lunga veste, un kimono color seta grezza, chiuso in vita da una "obi" rosso sangue, seduta in disparte sul pavimento, gli occhi fissi su un vaso con fiori disposti in modo per lui bizzarro.
Nessun uomo od androide nella stanza oltre il sergente.
Bruno aveva osservato per pochi istanti, poi si era ritirato piano com’era arrivato ed era rimasto sveglio tutta la notte, alternando la visione di Yoshida nuda sotto la doccia con quella della sua meditazione silenziosa, stranamente felice per non averla trovata in compagnia.
Da allora il maggiore Koran non era più riuscito a vedere il sergente maggiore solo come tale e questo gli era d’enorme peso, considerando anche il fatto che da allora lei si era fatta sorprendere nell'atto di osservarlo con uno sguardo tanto tagliente quanto affascinante. Quello era l'unico rapporto che Bruno era riuscito ad avere con lei al di fuori di quello gerarchico, freddo e tecnicamente distaccato, anche se traspariva un interesse profondo verso l'altro in entrambi. Un rapporto fatto di lunghi, intensi sguardi, sempre a distanza; incontri silenziosi che terminavano con l’allontanarsi di uno dei due, richiamato dai loro obblighi.
Koran tornò al presente ed ai suoi uomini che si muovevano come se fossero parte del colore cupo diffuso ovunque, come fossero soffi di una brezza leggera.
Eppure ognuno di loro aveva nel suo intimo una tempesta piena di tuoni tanto forti quanto denso era il loro teso silenzio; ogni minima forma che appariva nel loro ristretto orizzonte era fonte di una nuova emozione, un colpo al cuore, la constatazione che ancora una volta avevano scambiato una roccia o delle macerie per un nemico.
Le costruzioni segnalate erano ormai prossime e tutti ricordavano perfettamente il punto indicato dagli esploratori per penetrare nella zona di pericolo.
Koran si fermò all'improvviso, imitato dagli altri; era stata Yoshida a farlo paralizzare solo con uno sguardo breve ed imperioso. Lei era pochi passi più avanti di tutti e aveva fatto solo un corto gesto con la sinistra, gesto captato dai sensori della sua tuta e inviato come segnale luminoso alle visiere degli altri: dove appariva il punto verde c'era un nemico.
Il sergente Yoshida consegnò il suo Colt-Centronics al comandante, che si chiedeva cosa volesse fare, poi allungò la mano verso l'impugnatura che fuoriusciva, accanto al ginocchio destro, dal fodero agganciato allo stivale dello scafandro.
Ne estrasse una lama ben diversa dal coltello che ognuno di loro aveva in dotazione: lei aveva uno spadino di oltre mezza yarda, una "wakizashi" degna di qualunque eroico quanto antico samurai.
La massa del nemico, appena distinta per qualche tratto regolare fra tanti particolari caotici attorno, si mosse appena, cambiando posa e scoprendosi nella sua conformazione ancora aliena agli occhi umani, abituati solo alle proprie consuete forme.
L'essere aveva come loro due gambe e un tronco sormontato dalla testa rotondeggiante, resa ancor più sferica dall'elmetto largo, ma sorprendeva (e dichiarava la sua diversa origine!) con le quattro braccia che punteggiavano il torace robusto.
L'essere fece qualche passo verso di loro ma doveva seguire un suo qualche pensiero perché sembrò non avvedersene fino al momento in cui Yoshida saltò fuori d'improvviso, leggera e terribile, tagliando l'elmetto e il cranio sotto di esso in un unico bagliore d'acciaio, bagliore che spense lo sguardo azzurrino dell jerras, atterrito dalla visione del nemico, da quella figura aliena con due sole braccia.
Shusui però non poteva aver visto quegli occhi nascosti dall'elmetto...

* * *


- Brutta storia, caro mio. - commentò Chet Arnasy porgendo una tazza di thé a Bruno.
- Mi dispiace d’essermi fatto prendere dal panico. Non avrei creduto di rivedere mai un'immagine come quella. - indicò appena il quadro, senza voltarsi a guardarlo.
Bevve un lungo sorso di thé e si appoggiò allo schienale comodo della poltroncina. Sentiva la presenza del dipinto al suo fianco come se fosse stata una sentinella con gli occhi fissi su di lui, un carceriere in attesa che finisse la sua ultima colazione per portarlo al patibolo.
- Come… come l'ha avuto? - si decise a chiedere.
- E’ un ricordo registrato su tela invece che su un cristallo o digidisk: è stata la scelta del suo possessore. L'unica differenza con una fotografia sta nel supporto di base e nella realizzazione; sono stati scelti colori in polvere mischiati ad acqua e fissati su tela di fibra vegetale invece di impressionare una carta fotografica od una pellicola magnetica. Se vuole le faccio vedere la stampatrice, è nella stanca accanto. Bel risultato comunque... degno del Pergamon Museum. - gli spiegò l'archeologo.
- Un notevole senso artistico. - commentò Bruno Koran - E chi é l'autore? -
Chet Arnasy sorseggiò il suo thé e porse un piccolo vassoio di ghiotti pasticcini a Bruno che rifiutò, in attesa della risposta.
- Talvolta gli uomini sono come città distrutte da cataclismi, sepolte dalla polvere del tempo: grandi tesori per noi archeologi. E’ un aspetto della curiosità umana: la ricerca attraverso quello che ci vive attorno o che è già vissuto in altri tempi o in posti diversi. Brutta maledizione quella di voler sapere, e lo sa perché? Glielo dico io! Perché un giorno arriva quella grande rompiscatole della Morte e dice che é scaduta la nostra tessera della biblioteca e che non ci daranno altri libri da leggere. Quel che hai saputo hai saputo e ti accorgi che non é niente in confronto a quello che volevi sapere! -
Finì di bere il suo thé e fissò negli occhi Bruno.
- La sto prendendo larga, vero? Magari penserà che sragiono. E’ che volevo farla arrivare a qualche constatazione fatta sia col cervello che con il cuore. Lei ha dei ricordi notevoli nonostante la giovane età, come supponevo; interessanti e importanti perché relativi a cose e tempi che pochi hanno avuto la possibilità di vivere. Ma si è mai chiesto cosa c'è dietro un essere umano? Aldilà dell'aspetto e di quello che si può leggere dai suoi dati identificativi? Abbiamo colonizzato quasi un centinaio di pianeti in diversi sistemi solari di costellazioni lontane dalla nostra originale e abbiamo mischiato le nostre usanze con quelle, altrettanto mescolate, di popoli un tempo diversi. Sarò partigiano se dico che più o meno tutti hanno dentro una vocazione allo scavo archeologico, talvolta solo per capire perché la loro pelle è appena più chiara o più scura di quella degli altri o perché i loro occhi hanno un taglio diverso... Siamo tutti archeologi, mio caro! Lo siamo o cerchiamo inconsciamente di esserlo, spesso senza accorgerci di quello che è il limite dell'Archeologia: ritroviamo gli oggetti e le case degli uomini antichi, i loro quadri, le loro case e strade, talvolta anche qualcosa dei loro poveri corpi consunti. Tutti aspetti esteriori della loro esistenza ma niente dei loro effettivi sentimenti, dei loro pensieri. Certo l'Arte è eterna, MA NON E` MAI l'Artista, mai rappresenta la minima emozione che ha portato l'Uomo a fare una scelta. Sa, amico mio, quale sarebbe l'ottimo quadro di un sentimento? Glielo dico io: una semplice lacrima. Ci sono anni di sentimenti dietro una lacrima, gioie esaltanti e delusioni terribili; dolori immensi conosciuti solo da chi li ha provati.
Lei voleva sapere chi è l'artista di quell'immagine? Ebbene l'autore di quel quadro l'ho rivisto poco fa attraverso la sonda mentale: era nei suoi ricordi, anche se quando l'ho vista io non era più lo stesso essere di allora. Era l'archeologia del suo passato il suo unico interesse, la riscoperta di qualcosa del passato della sua razza per cercare di mutare il proprio futuro imminente. Quel quadro era il tentativo di liberare la sua mente da situazioni che non aveva scelto, ma che aveva purtroppo vissuto e da un periodo della sua vita e da un uomo. Lei, caro il mio curioso! -
Bruno Koran spalancò gli occhi e la bocca.
- Io? - mormorò - Perché proprio io? Non sono mai stato un comandante autoritario e ho sempre dato stima contro stima ai miei uomini. Perché io allora?-
- Ai suoi uomini, maggiore; ma alla sua donna? Cercava lei dietro le armature nipponiche che voleva vedere prima? Nei bagliori chiari dell'acciaio forgiato cercava forse il brillìo pulito della sua anima di femmina? L'ho riconosciuta subito nei suoi ricordi. Venne a vedere il museo un paio di anni fa, un giorno come tanti altri, noioso nell'attesa di qualcuno che avesse una storia da raccontarmi: la stessa storia di oggi e che finiva con quell'esplosione... - indicò il quadro - ...ma vista da un'altra angolazione, da un altro paio di occhi. -
- Shusui Yoshida... - boccheggiò Bruno.
- Già. Uno dei suoi "uomini".- mormorò Chet Arnasy, come se stesse facendo chissà quali considerazioni - ...eppure lei deve essere stato davvero un ottimo ufficiale, stimato dai superiori e dai subalterni. E’ un peccato che non sempre lei abbia capito i "suoi uomini". -
Gli fece cenno di seguirlo in un’altra stanza e gli indicò una poltroncina dinanzi ad un visore bi-oculare di un video-riproduttore Kensington. Cercò poi in uno schedario magnetico digitando una serie di codici; avuta la risposta su un display prese un "videocube" e lo inserì nel fianco del Kensington.
- Si guardi questo.
- disse semplicemente azionando l'avvio; poi si allontanò lasciando Bruno solo con la registrazione.

* * *
Entrare nella prigione e neutralizzare i pochi soldati jerras che la presidiavano, disattivando anche i congegni di sicurezza, non era stato troppo impegnativo per la squadra del maggiore Koran.
Diverso invece era stato uscire allo scoperto e raggiungere, a tre miglia da lì, il punto di recupero dove i mezzi di salvataggio avrebbero portato via loro ed i sessantatré prigionieri liberati; erano tutti piuttosto confusi e certo non di grande aiuto ai loro liberatori in quella marcia. Il pericolo era un arrivo in forze di altre truppe ostili, avvertite forse prima che il presidio fosse del tutto ridotto al silenzio.
Apriva la marcia un gruppo di sei soldati agli ordini del maggiore Koran, mentre dietro di loro si snodava il piccolo corteo dei liberati, avvolti nelle maschere ad aria rigenerata date loro dai Rangers del gruppo d'assalto.
Chiudeva il corteo il ventaglio degli altri sette Rangers capeggiati da Shusui.
Negli occhi orientali del sottufficiale non c'erano solo le ombre dei colleghi poco distanti ma anche quelle dei mille invisibili nemici con quattro braccia, ombre proiettate ai suoi occhi dal cervello violentato dalle preparazioni psichiche che le avevano stampato in fondo alla mente sul Pianeta della Guerra.
Lei vedeva tutto come filtrato attraverso una rete appena palpabile di visioni registrate e non cancellabili, immagini che popolavano la sua attenzione sprezzante.
Fu proprio grazie a questo che riconobbe, prima ancora che gli occhi ne avessero captato a fondo il movimento, il leggero vibrare di una figura scura, l’accenno di un movimento ad arco di un braccio robusto collegato ad un'arma a raggio, arma che lei aveva già visto funzionare in un'altra battaglia.
Shusui sparò ancor prima di averlo pensato, sapendo già a cosa sparava e perché.
Erano ormai prossimi al punto di raccolta ma erano stati intercettati da una squadra jerras che cercava di tagliare in due il piccolo esercito umano.
Shusui tentò di capire dai lampi dei laser che intravedeva più avanti, se anche gli altri del gruppo erano ancora tutti vivi o se qualcuno era stato colpito... E Bruno? Dov'era?
Da una serie di ordini via interfono seppe che lui era ancora il loro comandante.
- Maggiore, noi facciamo una diversione d'attacco verso i nemici! Porti via i prigionieri! - trasmise al suo ufficiale e chiuse il contatto prima di sentirsi ordinare  qualcosa di contrario alla sua idea.
Inviò un paio di segnalazioni luminose alle visiere del suo gruppo e si lanciò verso il nucleo della squadra jerras intravisti poco distante.
La penombra dell'atmosfera fu aperta dei chiarori aranciati dei laser da battaglia dei loro Colt-Centronics, intervallati dalle vampe azzurrine delle canne da fuoco.
Mentre i jerras opponevano un fiume di raggi biancastri al contrattacco umano, apparvero in alto le sagome dei mezzi di recupero, scortati da un paio di velivoli da combattimento.
I jerras furono sommersi dal fuoco delle armi di bordo dei due elijets ed i Rangers tirarono un sospiro di sollievo. Shusui intravide il gruppo di Bruno al riparo dietro una massa rocciosa con i prigionieri in salvo, questi ultimi rivolti verso il mezzo in atterraggio dietro di loro.
- Sergente rientrate... Bastano gli elijets a coprirci. Venite via, cessate la diversione! - ordinò Bruno nell'interfono di Yoshida. Lei fece solo un cenno con la sinistra e l'interprete elettronico segnalò agli uomini l'ordine di ritirata, poi comunicò al comandante che stavano eseguendo l'ordine.
Mentre arretrava, continuando a far fuoco sulle ombre che intravedeva dietro di lei, ebbe la fuggevole visione di un mezzo volante che sembrava avvicinarsi, basso sull'orizzonte scuro.
Aveva già visto un mezzo del genere e sapeva che i suoi occhi, avvertiti da un particolare registrato nel suo cervello, non potevano essersi sbagliati.
Quello era un "carro volante"...
" Speriamo di no! " pensò ma lo sapeva che il totalbrain raramente sbagliava ricordo.
La sua squadra fece cerchio attorno al portellone del mezzo in attesa che l'ultimo dei prigionieri salisse. I due mezzi di protezione continuavano a scorrazzare a balzi irregolari nell'aria pesante ed a colpire i jerras ancora in cerca di loro.
Uno degli elijets schivò miracolosamente un raggio pallido che era arrivato dall'orizzonte e la voce del pilota si interpose via radio a quelle dei Rangers, che si scambiavano indicazioni sul recupero dei prigionieri.
- Carro volante ad ore due! Levatevi di torno alla svelta, quella è una best... - la voce s’interruppe nel momento dello scoppio che spezzò in due tronconi il suo apparecchio.
Il pilota del mezzo di soccorso subito ordinò di salire, altrimenti li avrebbe piantati lì con i jerras e il loro carro volante.
Yoshida fece un paio di gesti imperiosi agli ultimi prigionieri, sollecitandoli a salire sul mezzo di recupero. L'elijet rimasto ballava nell'atmosfera fra un raggio e l'altro del carro volante, sparando all'impazzata un po’ ai nemici a terra, un po’ all'avversario in lento avvicinamento.
- Yoshida, vieni via! – ordinò Bruno dall'altro mezzo di recupero, mentre il pilota lo faceva alzare da terra. Il maggiore sparì nel portellone con un salto agile, affacciandosi poi di nuovo per fargli un nuovo invito a salire.
Shusui gli fece cenno con la mano e spinse gli ultimi prigionieri sul secondo mezzo che stava già vibrando per i motori al massimo. Sparò poi una raffica laser verso delle ombre che si erano avvicinate e saltò sulla piattaforma del velivolo che iniziava ad alzarsi. Dette ancora un'occhiata all'altro mezzo, pensando che Bruno era ormai in salvo. Urlò al pilota di andarsene ma di aspettare ancora a chiudere i portelli e fu in quell'attimo che l'astronave di Bruno, già più in alto di loro, esplose per un raggio del carro volante.
Shusui urlò.
Urlò con tutto quello che aveva in corpo, con la voce e con gli occhi, con l’anima e con il cervello che stava già registrandosi inesorabilmente anche quell'immagine rosso fuoco...
* * *
Bruno si asciugò il sudore che la visone della registrazione gli aveva rovocato.
Riviveva l’episodio: erano precipitati al suolo avvolti dal fuoco nei tronconi dell'astronave abbattuta e molti erano morti subito. Altri erano sopravvissuti poche ore anche se i jerras che li avevano catturati avevano tentato di salvarli.
Lui era stato più fortunato ma era rimasto prigioniero dei Jerras fino alla fine del conflitto, otto mesi dopo.
Mesi durante i quali aveva imparato molto sulla razza dei suoi nemici, sui loro pensieri, su quanta civiltà ci fosse nella loro storia e su quanto assurdo fosse il fatto che una razza di quelle tradizioni dovesse scontrarsi con un'altra altrettanto ricca di storia come quella umana.
Guardò il direttore del museo, apparso sulla soglia della stanza: non si dissero niente, entrambi consapevoli di tutto quello che ognuno ormai sapeva od intuiva.
Restava solo un particolare da chiarire.
- Dov’è lei adesso? - domandò Bruno.
- L'universo è grande. - Arnasy fece un gesto circolare con la mano per accompagnare quanto detto.
- Sono anni che lo giro: cercherò ancora. - dichiarò Bruno deciso.
- Si, credo sia la verità. Per questo voglio darle qualcosa per il suo lungo viaggio: ecco...- si alzò e si avvicinò a una tastiera per digitare qualcosa. Lesse un'indicazione sul display e frugò in un cassetto di schede - Questo è l'indirizzo di Shusui Yoshida. Abitava qui in città e credo che ci abiti ancora. -
Bruno Koran prese il biglietto e fece per allontanarsi.
- Grazie. A proposito: non credo che le venderò i miei ricordi. Possono ancora servirmi. Addio, Archeologo. Grazie di tutto. -
- Le ho soltanto offerto un thé e dei biscotti che non ha assaggiato: perché ringraziarmi? - sorrise l'archeologo - Suppongo che non le interessino più le armature che voleva vedere? -
Bruno ormai non lo sentiva più, rivolto verso l'uscita, ripulita intanto dai sacchi dei rifiuti. La raccolta funzionava ancora bene.
Si voltò come se si fosse ricordato (o dimenticato) qualcosa.
- Perché mi ha detto che era un LUNGO viaggio se Shusui abita in città? - domandò.
Chet Arnasy si strinse nelle spalle.
- Crede proprio che sarà breve? Misuri le sue emozioni e tutti i ricordi che le passeranno per la testa; provi a dare risposta a tutte le domande che le verranno alle labbra e poi tiri la sua conclusione: viaggio breve… o lungo? - finì con un gesto che somigliava ad una benedizione e anche ad un congedo definitivo.
Fuori del giardino Bherleen brulicava di persone mosse verso le loro occupazioni o dalle scadenze che il mezzodì ricordava loro.
Si lasciò alle spalle la Unter Den Linden Alleé e tutta la sua folla e si infilò nella più quieta Bender Strasse.
Vide la vetrina prima ancora di poterla distinguere pienamente; c'era qualcosa che attirava il suo sguardo, un segnale che percepiva a fior di pelle, sotto coscienza.
Nel riverbero azzurro del vetro del negozio (ci si specchiava la palazzina di fronte, austera e di quel colore) spiccava la chiazza arancione di un grosso fiore, forse una alectome di EARTH/2, una sorta di grossa orchidea gigliata dai colori vividi.
Si fermò di fronte alla vetrina e osservò la composizione floreale: sembrava un'ulteriore accenno all'esplosione dell'astronave avvenuta otto anni prima, salvo per i due tralci fioriti e di diverso colore che si dipartivano dal fiore verso l'alto.
Un cartellino sotto il vaso portava scritto "INSIEME" ed era l'unica spiegazione.
Guardò gli ideogrammi che sovrastavano la maniglia della porta e sorrise, riconoscendone il significato.
" Ikebana." mormorò. Era quello il posto.
Aldilà del vetro intravide una figura: l'ex sergente maggiore Shusui Yoshida stava fissando l'ex maggiore Bruno Koran, chiedendosi se fosse una visione dettata dal suo cervello, un "kami" maligno venuto a tormentarla, o se incredibilmente fosse proprio Bruno Koran, sopravvissuto a quello che sembrava impossibile superare.
Si fissarono a lungo, chiedendosi ognuno se davvero ci fosse l'altro aldilà dello schermo trasparente oppure una propria allucinazione disperata.
Ma erano entrambi combattenti valorosi e anche se il coraggio ci abbandona  spesso quando meno ce lo aspettiamo, tutti e due avrebbero affrontato quella nuova battaglia: ritrovarsi e spiegarsi l'un l'altra il come ed il perché.
Note dell'Autore:
ci sono riferimenti chiari alla città di Berlino come il nome stesso e quello del museo, uno dei più importanti, e anche nei nomi delle strade. Il nome del pianeta naturalmente è Terra/2.

L U S I N D A (2003)


Nel vicolo più lontano, rispetto alla cattedrale, c’era una fila di banchi, di fatto l’ultima parte del mercatino antiquario. Alle dodici il sole era dritto e lucente sopra al vicolo e illuminava tutte le anticaglie esposte; nel resto della giornata invece filtrava dai dislivelli dei tetti o per i riverberi provenienti dalle strade vicine o dalla piazza, sempre soleggiata.
Nora e Dani vi arrivarono a metà pomeriggio e la luce nel vicolo era soffusa e discreta; invitante dopo l’ombra che ammantava l’antico palazzo lucchese, che dava nome al vicolo e al tempo stesso quasi ne vietava l’accesso, nascondendolo con una parte sporgente della facciata.
- Qui non c’è niente. - disse Dani tornando indietro ma Nora, non svogliata e disattenta come lui, aveva intuito qualcosa dietro il doppio angolo.
Proseguì nel vicolo e trovò il primo dei banchi, coperto da vecchie cartoline, stampe consunte, disegni e cornici vuote. Oggetti di vite altrui.
Dani sbuffò, fece per dirle qualcosa e poi la seguì scocciato. "Quando si fissa con un idea è peggio di un mulo!" - brontolò.
L’ultimo della piccola teoria di banchi era solo un tavolo consunto, contornato da seggiole scompagnate e un puttino di legno dorato che si chiedeva cosa avesse fatto di male per cascare lì dal paradiso.
Fu però il banco avanti a questo ad attrarre Nora: era affollato da bambole simili fra loro ma con vesti diverse; tutte sull’attenti come un coro silenzioso, pronte al cenno del maestro a intonare chissà quale inno ("O Fortuna", pensò Dani quando le vide e sentì anche risuonare nella mente il canto orfico).
- Mamma mia, come sono brutte! - disse poi, parere non richiesto.
- Non è vero, guardale bene: guarda gli occhi come sono lucenti e intriganti e guarda i loro abitini come sono rifiniti. - chiarì Nora indicandogli le più vicine.
Accanto al banco c’era una donna di età imprecisata con i giovani capelli scuri, le rughe da vecchia sul viso e occhi chiari senza tempo. Alzò lo sguardo dal suo libro e fissò la ragazza.
- Puoi toccarle. - le disse - Attenta solo a non mischiarle perché ognuna ha il suo diario.
Ogni bambola aveva infatti, sotto i piedini, un piccolo libro rilegato in pelle. Nora alzò la bambola vestita di giallo e arancio che gli stava davanti e prese il diario. Sulla prima pagina c’era scritto "AURORA, Signora nel Mattino"; le poche pagine a seguire erano bianche.
- Sembra pergamena. - disse rivolta alla donna senza tempo; infatti questa annuì.
- Chissà quanto costano… - borbottò Dani, intento a dissuadere Nora da un eventuale acquisto. Ma lei era attenta a valutare le differenze o somiglianze fra i vari pezzi. Ognuna sembrava avere lo stesso viso anche se poi, a ben vedere, erano diverse nei particolari: la piega della bocca, un sorriso o un broncio più o meno accennati. Gli occhi, allungati e lucenti erano di varie tonalità come i capelli. Ogni vestito aveva un suo cappellino e talune lo indossavano, altre lo tenevano in mano come appena tolto dopo una passeggiata; tutte graziose e leggiadre, anche la vichinga bionda, con il corpetto di cuoio e l’elmo lucido con le corna ricurve.
Mentre Nora pensava ancora quanto fossero carine, la donna dette ancora una spiegazione:
- Sono tutte Signore di un tempo o di un’emozione, ma quelle al centro sono Regine. - le disse senza alzare gli occhi dalla lettura.
La ragazza fece attenzione e notò che alcune bambole avevano gli occhi più grandi e più belli e i loro abiti avevano dei particolari in più, come un fiore, un ricamo o un velo. Nora prese quella con l’ampio abito scuro, quasi un nero lucente, con il cappello a punta e lo sguardo duro. "LUSINDA, Regina nell’Oscurità" era scritto nel diario.
- Sembra una strega. – disse Nora, fissandola negli occhi – Però mi piace. Quanto costa? -
La donna si alzò e guardò appena la bambola, studiando molto di più la ragazza, come se fino a quel momento non l’avesse vista.
- Trenta euro. E’ troppo? -
Allo sguardo stupito di Nora precisò: - Sono fatte a mano dalle ragazze ospiti di un collegio: povere figlie disgraziate di questo mondo ingiusto. Il collegio provvede a tutte le necessità e questi piccoli capolavori sono qualcosa in più, una specie di offerta da fare loro. Varrebbero molto di più ma poi chi le comprerebbe? -
Nora annuì convinta.
Mentre pagava ed aspettava che la signora le consegnasse la bella bambola in un banale sacchetto di plastica, Nora notò lo scatolone aperto di fianco al tavolo: era pieno di altre bambole che, osservandole meglio, vide essere tutte con sembianze maschili.
- E quelli? – chiese indicandoli.
- Carini, vero? Sono bambolotti fatti dalle stesse ragazze. Qualcuna li chiama "i fidanzatini", non so perché. –
- Te ne compro uno! Eh? Dai, quale vuoi? – rise Nora guardando il suo ragazzo.
Dani le scoccò un’occhiata che avrebbe incenerito un treno in corsa e Nora se ne accorse. Prese la sua nuova bambola e salutò allegra la donna, poi girò sui tacchi togliendolo dall’imbarazzo.
Lasciando il vicolo, Nora con la sua bambola e Dani con la voglia di prenderla in giro per l’acquisto, lei studiò bene il piccolo capolavoro: gli occhi scuri e lucidi della bambola brillavano sotto il sole pomeridiano e il vestito, come il cappello, era di un blu profondo. Guardò in volto la bambola e vide di una cosa non notata prima: Lusinda sorrideva leggermente. A Nora venne naturale fare altrettanto.
- Quando torni ad avere vent’anni, magari ti ricordi che sono sette giorni che non facciamo l’amore. E io ne avrei anche voglia. – brontolò Dani inforcando gli occhiali da sole sopra il broncio che stava mettendo su (anche lui da bravo bambino).
Nora si stupì della frase del suo ragazzo, lì, in mezzo alla gente della piazza e gli fece un gesto come a dire "ma sei scemo?".
Guardò Lusinda e poi la voltò verso di lui, indicandoglielo: - Lo vuoi? Te lo regalo! Che ne so: potresti rivenderlo, mangiartelo, farlo sparire. Che ne dici? -
Dani si voltò a guardarla (guardarle), tirando gli occhiali sulla fronte. Poi sbottò:
- La giri codesta stronzetta? Mi guarda male! -
*
Nella sua camera Nora si asciugò l’ultima lacrima e guardò la foto di Dani; dal volto del suo ragazzo passò poi a quello di Lusinda, messa in bella mostra sul comò.
Lei e Dani avevano litigato a fine pomeriggio: prima i musi lunghi di lei per le prese in giro del ragazzo; poi lui, offeso per il rifiuto di Nora di cercare un posto tranquillo per star soli. Infine le cattiverie, magari non pensate però dette; il rinfacciarsi cose ed eventi forse inesistenti ma a quel punto armi utili nella lite. Inevitabile conclusione delle scontentezze del pomeriggio.
Dani in quel momento sarà stato a rodersi nella sua camera come stava facendo lei, o forse in giro con qualche amico a sbollire. Ci aveva pensato anche lei ma non aveva voglia di farsi vedere in giro quel sabato sera. Le amiche (pettegole) avrebbero chiesto, indagato, rigirato il coltello…
Magari l’indomani sarebbe stato diverso: lui più tranquillo e voglioso di fare pace e di lei (senza frenesie) e quindi perché dare per finito qualcosa?
Si infilò a letto con il tarlo che in fondo non fosse Dani quello giusto; spense la luce e cercò di dormire mentre l’adrenalina svaniva e la lasciava spossata.
Nel buio rimase solo il lucore degli occhi di Lusinda.
*
Capelli neri, corvini e folti, più neri dell’oscurità intorno e due occhi brillanti che sembravano galleggiare, vivi, autonomi.
Dani sentì il brivido prenderlo dalle natiche e salire rapido fino alla nuca, drizzandogli i capelli e i peli del corpo. C’era una macchia d’ombra fra le case e gli alberi del viale; la figura era un’ombra appena visibile ma con quegli occhi a brillare inquieti e inquietanti (famelici).
La ragazza fece un passo avanti, rivelandosi nella sua travolgente bellezza.
- Ciao. - gli disse con voce decisa, con quegli occhi piantati nei suoi.
Dani restò zitto.
Chi era quella lì? Così bella; tanto eccitante da rimescolarlo tutto mentre gli faceva venire la pelle d’oca?
- Ti hanno mangiato la lingua? - chiese lei ridendo (ma non gli occhi, solo con la voce); poi si riavviò i capelli. Nel farlo tenne ancora gli occhi fissi nei suoi e sembrò accennare un sorriso diverso, complice e malizioso: privo di ogni derisione, forse una domanda muta. Pareva chiedergli: " ma, mi hai visto bene? ".
Con poca riserva di parole e il cuore sballato, Dani fece un tentativo.
- Ti conosco? – balbettò mentre il profumo di lei arrivava a lui ed era ovunque (trascinandolo altrove).
- No, te lo ricorderesti. - disse lei con tanta naturalezza da abbatterlo - Che ci fa un bel ragazzino come te tutto solo da queste parti? –
Dani avrebbe voluto farle la stessa domanda: che ci faceva una ragazza così bella, così fenomenale, così poco adatta (poco normale?) nel suo abitino nero corto ed attillato. Ebbe un lampo, realizzando ciò che non aveva capito subito.
- No, ti sbagli sai? Non sono una di quelle. – disse lei come se avesse sentito i suoi pensieri.
- No, scusa… - balbettò Dani. Ma di che si scusava? Di un pensiero?
Ora gli girava la testa: il profumo di lei, la voglia di lei, sottile (la paura di lei, ENORME), la delusione per il rifiuto di Nora di fare l’amore, il litigio di fine pomeriggio e i brividi che la sconosciuta gli metteva addosso.
Si portò una mano alla tempia e chiuse gli occhi.
La ragazza si avvicinò di più e gli accarezzò la mano e poi la fronte, delicatamente. Continuò la carezza sui capelli, portando la mano dietro la sua nuca e poi sul collo.
Socchiuse la bocca e Dani apprezzò ancora di più la bellezza dei lineamenti, la linea dritta del naso, la forma perfetta delle labbra di lei; bruciava del desiderio di essere baciato da lei ovunque, con quella bocca fresca, umida, piena di promesse e di inviti: piena di desiderio, piena di…
Piena di ZANNE !!
Zanne enormi, feline, più che feline… mostruose.
Dani si risvegliò gemendo, fradicio del suo sudore.
Si sentì gelare e accapponare la pelle, poi di nuovo soffocare nel bollore del suo corpo agitato, svegliatosi di soprassalto dall’incubo.
Sentì il bisogno di andare in bagno e ne approfittò per lavarsi la faccia e i polsi con acqua fredda. Era già sveglio e voleva solo scacciare l’incubo. Tornò in camera e il caldo della stanza era fastidioso dopo il fresco dell’acqua.
Aprì finestra e persiana e si affacciò nella notte fresca e schiarita dalla luna ormai piena, alta nel cielo stellato. Nel silenzio notturno il passo leggero di qualcuno sul marciapiede lo fece guardare giù.
Dagli alberi apparve nella luce lunare una ragazza dai capelli neri e folti: i suoi occhi sembravano galleggiare nella notte e guardavano verso di lui.

*
Nora si svegliò di prima mattina, con l’entusiasmo di chi deve fare qualcosa di grande e nuovo proprio quella domenica e, quindi, non ha tempo da perdere. Naturalmente la sensazione non era accompagnata anche da cosa dovesse fare e assieme al ricordo del litigio, un po’ la frastornava.
" Intanto devo mettere a posto. " - borbottò considerando il letto sfatto, gli abiti gettati a caso sulla sedia (non era da lei, sempre così perfettina) e la bambola nuova fuori posto.
Nora guardò Lusinda ripensando che era a posto la sera prima. Forse era entrata sua madre mentre dormiva e l’aveva spostata per guardarla?
Le sembrò che la bambola sorridesse più di quando l’aveva comperata. Inoltre Lusinda aveva un segno rosso sul lato della bocca e Nora lo toccò per capire cosa fosse. Sul dito le rimase una macchiolina rosso cupo. Mentre cercava un fazzoletto per pulirla vide il diario della bambola: anche questo non era dove l’aveva messo lei.
Nora lo aprì e vide una scritta, rosso sangue come il segno sulla bambola, vergato in una calligrafia minuta e un po’ fuori dal tempo.
C’era scritto:
" Nora adesso è libera."
Mentre cercava di capire, sentì il trillo del telefono al piano e di sotto e poi la voce agitata di sua madre che la chiamava:
- Nora, corri: è la mamma di Daniele! Non lo trovano più! -

*

Dani si svegliò con l’esatta sensazione di non sapere dove si trovasse, accompagnata subito dopo da quella di non potersi muovere.
Aprì gli occhi e vide penombra attorno a sé ma non quella della sua camera.
Ricordò il sogno e sospirò, poi fece per muoversi e di nuovo provò la sensazione d’immobilità forzata.
Chiuse gli occhi e li riaprì cercando di far passare il tumulto che faceva il suo cuore.
Era ancora sdraiato e si trovava su un piano rigido, non su un letto, una stanza in penombra che sembrava non avere limiti tanto era grande.
La luce aumentò di colpo sbalordendolo; poi una forza esterna lo prese come s’impugna un oggetto e lo mise quasi in piedi. Due occhi chiari ed enormi lo fissarono da un volto senza tempo, contornato da capelli scuri. L’esame durò pochi istanti, poi si sentì spostare verso il basso, fino ad uno scatolone aperto e quasi al buio.
Dani tentò di urlare ma si accorse che non poteva emettere nessun suono, che la sua bocca sembrava pietrificata come il suo corpo.
Si trovò in piedi, in mezzo ad altri corpi rigidi e vestiti quasi tutti come lui. Tentò di nuovo di urlare ma l’urlo risuonò solo nella sua mente sconvolta.
Quando tornò il silenzio durò solo pochi istanti; poi una voce di giovane uomo risuonò nella sua mente, nitida.
Poche parole ma tremendamente chiare.
- Piantala di urlare! Rassegnati prima che puoi, sei solo un bambolotto come noi, adesso! –

***

in questo racconto traspare qualche immagine della città di Lucca, alla quale sono molto legato fin da bambino. Legame venuto fuori anche in altri miei scritti...

LA FOTOGRAFIA DEL PITTORE (2001)

"Carambole di fantasmi io conservo.
Conservo pezzi di temporale."
Ivano Fossati


Andrea guardò giù, sotto la rocca. L’acqua nel canale del porticciolo si fondeva nel mare e le sue fitte increspature si mischiavano alle onde leggere, così come si mescolano i bei ricordi a quelli brutti formando il passato.
Fra i turisti che si avvicinarono una giovane donna si fermò a guardare giù dal muretto, accarezzandosi i lunghi capelli castani. Quel gesto semplice e così femminile (o i riflessi del sole fra i suoi capelli) accesero in lui una profonda nostalgia di sguardi complici, di sorrisi luminosi in occhi stel-lati, di carezze lontane nel tempo.
Lei si avvicinò, gli rivolse un sorriso e, porgendogli la macchina fotografica (aveva visto quella che lui portava al collo), domandò:
- Mi scatterebbe una foto? -
Andrea disse di si e attese che lei si mettesse nel punto dove voleva il panorama come sfondo; infatti chiese se si vedeva il mare; lui annuì e scattò la foto.
- Se non le dispiace ne scatto una a mio piacere. - chiese Andrea, mentre indicava alla ragazza il punto dove mettersi.
La giovane non ebbe esitazioni e si lasciò guidare; volse lo sguardo verso un punto lontano e la foto era pronta, così come lui l’aveva immaginata. Il sole fra i capelli, il volto illuminato dal flash per annullare il controluce, lo sguardo perso. Un bel ritratto.
Andrea sorrise ed esitò appena; poi scattò la foto, le restituì la macchina e salutò.
La strada per l’entroterra era poco trafficata e Andrea guidò tranquillo, senza curarsi delle indicazioni: non aveva una meta precisa ma era certo di riconoscere quello che cercava non appena lo avesse visto.
Attraversava un paesaggio straordinario nella sua semplicità. La campagna e le colline si fondevano nei colori del grano e dei papaveri, interrotte solo dalla strada e da qualche fila di cipressi.
Si fermò ad un bivio e lo vide: su una collina poco lontana una rocca coronava un borgo di pietra, con grandi alberi ad ombreggiarne le mura. Scattò alcune foto alla campagna intorno e a quel borgo sottomesso al castello.
Giunto in paese non vi trovò movimento; nessun turista a interrompere i toni regolari dei muri di pietra; anche i negozi, ancora chiusi nel primo pomeriggio, non avevano i colori sgargianti dei ninnoli, delle cartoline o dei calendari della Toscana: cose uguali a quelle esposte a San Gimignano, a Volterra o a Pienza. Curiosando per il borgo ne vide alcuni dietro una vetrina: "eccoli lì" si disse e gli scappò un sorriso.
In un angolo della piazzetta c’era solo un uomo seduto davanti a un cavalletto; un largo cappello di paglia sdrucito, una camicia macchiata dai colori e i vecchi sandali ai piedi gli davano l’aspetto bohemienne di un pittore da cartolina. L’ultimo tocco di gusto retrò era la tavolozza che usava.
Andrea passando osservò il lavoro sulla tela: un quadro della piazza, con le panchine e una figura femminile dai capelli di grano accanto alla più vicina. Gli piacque la tecnica usata dal pittore: il quadro appariva lievemente sfumato nelle sue parti, tranne l’immagine della donna che, invece, era nitida e luminosa. Gli ricordò certe tele dei Macchiaioli, vivide e assolate.
Andrea iniziò ad inquadrare scorci della piazza con la macchina fotografica, valutandone altri. Si voltò verso il pittore (sembrava un quadro anche lui) e vide la possibilità di prendere altre immagini. Tolse il rullino dalla macchina e ne caricò uno in bianco e nero; poi, girando attorno all’uomo, lo inquadrò e scattò più volte. Infine vide la foto che cercava e si fermò; impostò la macchina con cura e inquadrò il pittore da vicino, con il suo quadro e l’angolo della piazza con la panchina vuota (nel quadro quella accanto alla donna bionda).
C’era tutto in quella fotografia, Andrea lo sapeva anche se non avrebbe trovato le parole per spiegarlo; ma lo sentiva, lo toccava, lo accarezzava con lo sguardo, attraverso l’obiettivo.
Il pittore si girò a guardarlo, gli occhi chiari un po’ spersi ma brillanti sotto la tesa del panama e con dentro una domanda.
- Le do fastidio? - chiese invece Andrea, arretrando di un passo.
- Ma no… Le piace? - domandò il pittore con la sua voce profonda.
- Si. C’è qualcosa… quella presenza che non c’è nella realtà e che rompe lo schema del dipinto. Un ricordo, vero? -
L’uomo si tolse il cappello e chinò appena la testa.
- Complimenti, lei ha occhio e sensibilità. – disse accennando alla macchina fotografica e senza porgergli la mano - Mi chiamo Gabriele: solo un povero diavolo, non l’arcangelo. - si presentò.
- Andrea. - rispose lui ritirando la sua - Se mi dà l’indirizzo le mando le foto: qualcuna decente ci sarà, mi auguro. Sono in bianco e nero, però. Non a tutti piacciono. –
Gabriele annuì, le avrebbe gradite e porse un biglietto da visita sporco di giallo.
Tornò con gli occhi al quadro: "Lei è Margherita…" disse con aria adorante e con un lieve cenno del capo verso la figura bionda.
Si sentiva che per lui l’assenza della donna era tanto opprimente quanto sublime ne era il ricordo ed era sopraffatto da entrambe le emozioni.
Andrea fu tentato di chiedere, di indagare, ma lo sentì ingiusto. "Affascinante davvero." mormorò soltanto.
Gabriele indicò la panchina vuota con il dito sporco di colore.
- Era lì che mi aspettava e quando arrivai nella piazza mi sorrise: era il paradiso in terra. Aveva un profumo così buono che sentii prima ancora di esserle vicino. –
Sembrò raccontarlo a sé stesso per rivivere quel momento più che per farne partecipe Andrea che capì invece quanto amore, quanta pazzia tramutata in arte ci fosse in quel ricordo: "Le lacrime non sviluppano i negativi ma certamente impastano i colori dei pittori…" pensò ancor più affascinato dal pittore e dal suo quadro dove, intanto, aveva ripreso a dare dei tocchi lievi con un pennello, attenuando i toni, i bagliori e le ombre: seguiva una luce tutta sua, forse quella dell’incontro con la giovane sorridente.
Andrea non se la sentì di interromperlo e decise di salire verso la rocca, seguendo le indicazioni.
Una brezza fresca scendeva nel vicolo verso la piazza: Andrea godette di quel vento leggero e scattò altre foto agli angoli delle viuzze, alle porte chiuse delle case o alle mura della rocca sempre più incombenti. Giuntovi a ridosso trovò un largo cortile davanti all’ingresso, racchiuso da un parapetto di pietra; su un’inferriata l’orario di apertura: era ancora presto e non cercò nemmeno il custode.
Dal parapetto guardò il borgo sotto di lui: la piazza non si vedeva; solo il tetto della chiesa e il campanile davano un’indicazione di dove si trovasse poco prima. Fuori del paese invece scorci di uliveti e di campagna, mentre più lontano il mare perdeva il suo blu.
Spostandosi lungo il muretto Andrea notò una ragazza appoggiata al parapetto della stradina che portava all’altro lato della rocca: guardava verso il brillio del mare all’orizzonte, con i capelli biondi mossi appena dal vento leggero.
Andrea la fotografò d’istinto: il suo aspetto semplice eppure altero, la posa distratta e la luce piena del pomeriggio a illuminarla erano un insieme troppo attraente. Lei si voltò subito verso di lui, richiamata dallo scatto della macchina. Sembrava sorpresa, come interrotta in un suo pensiero o in un sogno ad occhi aperti.
Andrea si mosse verso di lei per chiederle di posare ancora, ma lei arretrò di un passo e fece un cenno lieve, come per intimargli di fermarsi. Poi si allontanò svelta lungo il sentiero per fermarsi poco dopo e dedicargli un sorriso timido quanto luminoso: infine si voltò di nuovo e sparì dietro l’angolo delle mura, fra le ombre dei platani.
Lui, a sua volta sorpreso, mortificato, era pronto a scusarsi e a spiegarle perché, ma lei era scomparsa. Si precipitò fino al sentiero ma quando vi giunse lei non si vedeva più: guardò in ogni di
rezione ma di lei nessuna traccia. Scontento, deluso, tornò alla piazza del borgo.
Non vi trovò più il pittore, solo qualche turista arrivato dalla strada più in basso; allora si sedette su una panchina all’ombra a ripensare al fatto, finché una voce di donna non lo richiamò al pre
sente.
- Ora che l’ho ritrovata devo proprio ringraziarla. - diceva. Alzò lo sguardo e incontrò quello della giovane fotografata al mare - Mi sono fidata ed ho avuto ragione. C’era un negozio che sviluppava subito le foto ed ero curiosa di vedere la sua. - gliela porse - Grazie! E’ bellissima. Lei è davvero bravo. -
Andrea sorrise e rispose che in realtà era il soggetto a rendere bella la fotografia.
Lei ringraziò di nuovo e porse la mano sorridendo: "Francesca" si presentò e lui fece altrettanto.
- E’ qui per un servizio o per la storia di questo bel paesino? – gli chiese.
- No, sono solo un turista… - alzò le spalle - …e qui ci sono per caso. Non so nulla del paese, nem
meno come si chiama per la verità: non ho guardato i cartelli. -
Francesca lo fissò con i suoi occhi ambrati e pieni di curiosità; sul viso aveva un’aria incredula.
- Che ho detto? – domandò accorgendosi dell’espressione di lei.
- Credevo fosse qui per la storia dello spettro della bella Margherita e degli artisti ai quali appare. - rise poi all’espressione di lui - Sembra abbia visto davvero un fantasma! - sorrise ancora - Beh, in fondo lei dovrebbe avere il senso artistico e la sensibilità poetica necessarie affinché Margherita si mostri. Non capita a tutti; . Lo sa che i fantasmi non sanno di esserlo e per questo si mostrano? Cercano di dirci qualcosa ma non ci riescono. - sembrò consolarlo - Se vuole le presto il mio libro: c’è tutta la storia. Ma… davvero ha visto la bella Margherita? -
Andrea cercò di spiegarle, anche per capire lui stesso, e le parlò del pittore incontrato poco prima nella stessa piazza e di quanto ancora fosse innamorato della giovane chiamata Margherita e di quanto bella apparisse nel suo dipinto. Tacque, ancora incerto, sulla ragazza vista alla rocca e sul suo sorriso dolcissimo, simile quello della donna nel quadro.
- L’idea del quadro però non è originale. – disse Francesca – Il pittore Gabriele Parodi aveva già dipinto Margherita qui in piazza. - sfogliò il libro – Ecco, questo è il dipinto: bello, no? – disse mostrando una pagina del libro ad Andrea, che impallidì.
Il ritratto era quello che aveva fotografato e visto dipingere.
Prese dal taschino della camicia il biglietto da visita e lesse, mentre si rivolgeva a Francesca.
- Questo… Gabriele Parodi… che ne direbbe di visitare la sua bottega d’arte? Magari se è disposto ci racconterà la sua storia… -
Francesca alzò le sopracciglia.
- Parodi è morto da almeno trent’anni, sarà difficile che ci racconti qualcosa oltre quello che c’è nelle sue opere: ecco qua, è morto nel 1971. – confermò mostrandogli un’altra pagina del libro con le date sotto la fotografia in bianco e nero del pittore: l’uomo con il panama al quale Andrea aveva promesso di inviare le sue.
Lui sospirò forte, rabbrividì sotto il sole e le mostrò il biglietto da visita; poi la fissò negli occhi.
- Mi faccia compagnia: lei è una turista solitaria come lo sono io e potrebbe venire con me a cena: io le potrei raccontare una strana storia e lei a me quella di Margherita. Intanto le spiego una cosa: mi piace sviluppare in casa le mie foto in bianco e nero. Se gradirà la cena e la storia, forse accetterà di assistere domani allo sviluppo di queste. – toccò la sua macchina – Sa? Sono molto, veramente molto curioso di vedere cosa viene fuori… - disse guardando verso una panchina vuota poco distante.
Francesca avvertì la nota diversa nella voce di lui e, soprattutto, vide il suo sguardo pieno dei dubbi e delle domande che gli giravano nella mente.
Lei, comunque, sorrise e accettò.
 
(questo racconto è stato inserito nel sito dell'Agenzia Letteraria NABU di Firenze come "Racconto del Mese di Aprile 2013")