domenica 2 agosto 2009

IL CASSETTO DEI RICORDI (1994)

"Ma forse non è una buona idea girarsi a
guardare, è così in tutte le storie...
E se ti dai tempo per un'ultima riflessione,
forse è per dedicarla a dei fantasmi..."
Stephen KING
 
"E adesso che mi hanno scolpito
in lacrime sull'Arco di Traiano,
con un cucchiaio di vetro scavo
nella mia storia...
Ma colpisco un po' a casaccio
perché non ho più memoria...!"
Fabrizio DE ANDRE'



EARTH/2 (sistema d’Aldebaran): XXXVIII Secolo, un giorno qualunque.
 
 
- Che porcaio! - mormorò Bruno Koran saltando i sacchi verdi della raccolta rifiuti.
Se quello era veramente un museo, doveva esserlo soprattutto della decadenza e del cattivo gusto tipico delle cose fatte dai ciarlatani.
Dette un'occhiata alle locandine stampate (già doveva insospettirsi al fatto che non c'erano video-locandine invece di farsi attirare come un uccello dal sonaglio del crotalo) e si stupì invece di trovare celebrazioni per i ventuno secoli dalla morte di Shakespeare, le date delle conferenze sui diversi aspetti delle teorie sui Mondi Futuri di Asimov ed Heinlein e quelle di una esposizione dei rarissimi scritti originali su carta di riso di P'Ang Yun.
Non sapeva se continuare a credere in una disposizione fatta con malizia per ingannare i visitatori, secondo i metodi classici della ciarlataneria, oppure se ascoltare di nuovo quello strano stimolo psichico che si era impadronito di lui quando aveva visto il giardino poco curato e l'insegna sul cancello aperto: PERGAMON MUSEUM.
Trovarsi in una città così strana e piena di mescolanze, architettoniche ed umane, come Bherleen gli aveva dato insolite emozioni fin dal primo giorno trascorso in giro per le sue strade, costruite secondo precisi canoni terrestri; quando rifletteva sul nome del pianeta, EARTH/2, non trovava più tanto strano che esistessero città come quella, mausoleo perenne eretto in nome di altri mausolei umani formati altrove nello spazio, tanti secoli prima (ma di maggiore ed indubbia classe!).
Era entrato e dopo aver attraversato il giardino (una volta forse maestoso, ad onta dei quattordici alberi abbattuti di recente...), si era trovato di fronte il grande ingresso del museo, con l'androne punteggiato dai sacchetti dei rifiuti e con null'altro di umano a dare segno di sé.
- C'è nessuno? - urlò cercando un campanello, un avvisatore, un videocitofono per il custode (ma "video", nel senso tecnologico, non era una parola che si adattava molto all'ambiente, salvo si fosse fatta una mostra sui Latini e la loro cultura. Eppure lì ci si andava proprio per "vedere"...).
- Chi è? - gli fu chiesto dall'alto delle scale stile impero.
- Sono un turista... – " O un pollo? " si chiese Bruno subito dopo.
Gli si presentò, a mezza scalinata, un tipo un po’ dimesso, dall'aria però molto seria. Dava l'impressione di essere un vero scienziato o, comunque, qualcuno che aveva dedicato molto tempo della sua vita allo studio (poi magari si scopriva che sapeva tutto sulla magia nera o sulla coltivazione dei ranuncoli...).
- Lei chi sarebbe? - chiese il tipo al turista occasionale.
- Bruno Koran. Volevo visitare il museo... Forse ho sbagliato orario? -
- No: è già aperto. Io sono il direttore: a cosa s’interessa? -
- Ci sono parecchi settori? Non l'avrei detto... - lo sfotté Bruno.
- Ha letto l'insegna fuori? - domandò l’uomo con uno sguardo inquisitore.
- Si. -
- E perché è entrato? - chiese ancora in tono duro.
- Beh, Pergamon Museum mi sembrava un nome in grado evocare capolavori d'arte e altre cose interessanti. - spiegò Koran tornando serio.
- Uhm... Terrestre, vero? - gli domandò l'altro.
- Io? No, tutt'altro... nemmeno di questo pianeta. - precisò Bruno - Comunque vorrei vedere qualcosa di antico... armi nipponiche... sa, quelle strane armature di cuoio con grossi elmi spioventi e quelle spade taglienti come rasoi. -
- Già altri mi hanno dato una risposta come la sua, circa la scelta del museo intendo, e tutti sono poi risultati terrestri e curiosi come lei. Molti di loro avevano anche ricordi interessantissimi e spesso mi sono offerto di comperarglieli. -
Koran lo guardò negli occhi.
- Comprargli i ricordi? -
- Si. Le sembra strano, vero? Per la verità lo sembrava anche agli altri, soprattutto ai reduci delle guerre d'indipendenza che di tanto in tanto punteggiano i notiziari federali. -
- Puttanate! - sbottò Bruno - Avrei voluto vederli contro i Jerras su QUEVOR. Altro che ribelli alla Federazione! -
L'uomo guardò Bruno con aria interessata.
- Ex militare anche lei, eh? Mi venda i suoi ricordi: se lei era su QUEVOR ha visto e vissuto cose che non esistono più... ed i Jerras lo sa bene che non sono tanto aperti agli scambi culturali. -
- Vendergli i miei ricordi? Scherza? - disse Bruno sbigottito.
- Che c'è di strano? E’ una procedura psichica a cui molti si sottopongono, gliel'ho appena detto... naturalmente a condizione che abbiano ricordi interessanti che non riescono più a sopportare. Mica tutti ne possiedono! -
- Che cosa avviene dei ricordi ceduti dai legittimi proprietari? - domandò alla sua strana guida.
- Vengono classificati ed archiviati; i primi tempi mi divertivo a darci un'occhiata io stesso, ma mi creda se le dico che non è il passatempo più riposante per un essere umano... Non ce la faccio più nemmeno a vedere l'inizio dei ricordi di alcuni... -
- Allora a cosa serve tutto questo? -
- Gliel'ho detto: collezioniamo momenti della storia umana che un libro di storia non renderebbe altrettanto bene come la loro registrazione diretta. Alcuni sono anche molto artistici, sa? E soprattutto anche per liberare i loro possessori da spiacevoli episodi della vita. Cose alle quali spesso sono stati costretti. Reduci, ad esempio, passati sotto i metodi psichici totalbrain, caratteristici dei reparti scelti preparati sul Pianeta della Guerra... Lei, a proposito, dov’è stato addestrato? -
- Alla base di Waxghad, sul molto più umano JETRELLAN. Ci sono nato: mio padre era un militare... tradizioni di famiglia, come può capire. Niente metodi psichici in ogni caso... - chiarì Bruno, seguendolo sulla scalinata.
- Lei pensa che questo la renda migliore dei suoi colleghi? Loro erano dei volontari; sapevano cosa gli avrebbero fatto, anche se forse non erano in grado (nemmeno i progettisti lo erano!) di prevedere quello che tutto ciò dopo avrebbe portato loro. Se lei non è stato sottoposto a tali metodi può dirsi fortunato, anche se non le sembra.– fece una pausa come se le scale gli togliessero fiato - Voi militari avete quello che si definisce spirito di corpo: vi fa credere che quello a cui siete stati sottoposti sia la cosa migliore in assoluto che un soldato degno di tale nome possa chiedere nella sua carriera addestrativa, quindi anche per lei sarà difficile prendere in minima considerazione il fatto che un addestramento diverso possa essere pari o addirittura superiore al suo. Mi creda però se le dico che i sopravvissuti alle preparazioni del Pianeta della Guerra avevano proprio...- terminò la frase con un gesto volgare che alludeva alle dimensioni degli organi genitali di detti sopravvissuti.
- Non sempre, mi creda, non sempre. Signor...? - mormorò Bruno in risposta all'affermazione, lasciando andare il ricordo di un suo sottufficiale addestrato proprio con quei metodi.
- Chet Arnasy, facevo l'archeologo in gioventù. - si presentò l'uomo - Comunque quello che le ho detto serve solo per farle venire il sospetto che tutto quello che ha in testa e pensa di sé, potrebbe non avere il benché minimo appiglio ragionevole per farla sentire umanamente superiore ad un altro. -
- Oh, abbiamo un giudice umano, a quanto vedo. - si risentì Bruno.
- La smetta e si sieda su quella poltroncina. Adesso le faccio fare una prova con i suoi ricordi. Proverò a vedere se riesco a sopportarne anch'io la visione senza annoiarmi troppo. Magari veda di non farmi piangere... -
Si girò verso l'ospite con l'intenzione di scoccargli un'ultima occhiata indagatrice, puntandogli la sonda mentale del registra-sogni, ma non incontrò lo sguardo di Bruno; il visitatore era rimasto paralizzato sulla poltroncina, con le mani strette sui braccioli, gli occhi sbarrati, fissi su un quadro alla parete.
Era un dipinto molto reale: cupo nei colori dell'atmosfera e della superficie che veniva rappresentata (preciso in ogni particolare come fosse una fotografia ad alta risoluzione) squarciato al centro dall'esplosione rosso fuoco di un'astronave da combattimento, scoppio che dava un riverbero aranciato alle superfici delle costruzioni diroccate in basso.
" Dovevo immaginarmelo. " brontolò Chet Arnasy " Anche se me n'ero dimenticato di quel quadro! "

* * *

Il caporale Anton Proufer si toccava il casco della tuta da combattimento con un movimento ritmico ed ossessivo della mano sinistra; la destra era invece impegnata a togliere e inserire continuamente la sicura meccanica del suo Colt-Centronics d'ordinanza.
C'era del nervosismo nella squadra d'assalto del maggiore Koran: quattordici uomini che il giovane ufficiale si era scelto accuratamente fra i volontari presentatisi.
Si collegò con l'auricolare del caporale Proufer e gli fece una domanda:
- Senza guardare, caporale! Spara o no, adesso? -
L'uomo si fermò ed ebbe il moto spontaneo di abbassare lo sguardo verso il basso, senza spostare la testa, ma la parte inferiore della gorgiera di kivlex gli impedì di vedere il nottolino della sicura.
- Non lo so, maggiore... – si arrese.
- Allora smettila. - gli suggerì Bruno chiudendo subito dopo il contatto.
C'era invece molta calma negli occhi quasi immobili del sergente maggiore Yoshida: la soldatessa orientale era arrivata nella sua compagnia dopo il trasferimento dai Reparti Avanzati preparati sul famigerato M/2118, il Pianeta della Guerra. Era una reduce sopravvissuta all’unico scontro sostenuto dai reparti speciali nella guerra spaziale contro un'altra razza organizzata: la battaglia era stato un grosso successo tattico e anche una carneficina spaventosa.
Molti di quei reduci si erano dimessi oppure avevano chiesto trasferimenti a reparti più tranquilli. Il sergente Yoshida non aveva avuto molta fortuna: era finita nei Rangers Astrotrasportati e si era trovata di nuovo in prima linea.
In quell'operazione la squadra del maggiore Koran doveva prendere di sorpresa una specie di carcere scoperto proprio dai reparti Avanzati. C'erano prigionieri umani in quelle basse costruzioni e loro dovevano liberarli per farsi raccontare qualcosa di più sui nemici.
La voce del pilota del mezzo d'assalto volante comunicò al maggiore che erano a meno di due minuti dall'obiettivo.
Koran ordinò ai suoi di collegarsi alle sonde elettroniche che penzolavano sopra di loro e di attivarle: poco dopo le tute grigio-cromo dei soldati iniziarono a mutare di colore, adattandosi ai colori esterni analizzati dai sensori dell'astronave e comunicati al micro-computer di controllo di ogni tuta. Adesso gli scafandri, leggeri e resistenti, erano di un cupo grigio/blu tempesta.
- Un minuto. - comunicò il pilota.
Koran fece segno con l'indice sinistro, poi attivò le mire laser del suo Colt-Centronics. L'ultima occhiata fu per il sergente Yoshida, splendida ma fredda come un robot, gli occhi brillanti ma non a fuoco sul portello d'uscita, come se vedesse qualcosa fra sé e la porta, una visione tutta sua...
La donna si flesse leggermente in avanti, spostando i piedi in modo da essere pronta allo scatto verso il portello. Bruno vide il pollice, fasciato dal guanto della tuta, disinserire la sicura del fucile e subito dopo disinserire anche il collegamento automatico con il puntamento del casco.
" Come farà? " si chiese ancora il maggiore, ripensando a quanto il fucile garantiva a loro poveri mortali col puntamento integrato a quello automatico della visiera, cioè una velocità ed una precisione notevoli. Il sergente Yoshida, invece, usava solo le mire ottiche e talvolta nemmeno quelle, eppure colpiva con precisione incredibile e con una frequenza pari al doppio di quanto erano in grado di fare i migliori tiratori fra i suoi Rangers. Per lui, che non aveva avuto l'addestramento totalbrain, quelle sembravano bravate inspiegabili mentre per Yoshida erano quasi naturali.
Bruno ebbe solo il tempo di far scattare, anche lui, la sicura ed il puntamento (e vedere il cerchio rosato al centro della sua visiera), che il portello si aprì e mostrò loro la superficie scabra del pianeta QUEVOR.
Yoshida balzò su dal sedile e Koran ebbe appena la fuggevole visione delle curve del corpo snello ed agile della donna, confuso nel blu tempesta della tuta.
Fuori dal portello c'era la calma elettrica del pianeta e della domanda che girava a tutti in testa: " Ci avranno rilevato durante il volo d’avvicinamento? "
Koran dette appena un'occhiata distratta al cronometro che appariva impresso sulla visiera: erano perfettamente in sincronia con quanto era stato loro insegnato, eccetto il sergente Yoshida che era piuttosto mezzo secondo avanti a tutti.
Shusui Yoshida, la bella.
Shusui, la terribile.
Ricordava il giorno in cui lei era arrivata alla base di raccolta: la divisa (con il nastrino di reduce) in perfetto ordine, gli occhi nascosti da un paio di Agfa scuri, lo zaino portato come fosse vuoto, senza minimamente rallentare il suo passo deciso.
E ricordava anche il sergente Kriix salvato a malapena dalla castrazione per aver tentato di soddisfare le sue pene d'amore (o le semplici voglie di maschio?) assalendo la sua parigrado nella doccia dei sottufficiali.
La doccia del sergente Yoshida... lui ne sapeva qualcosa avendola spiata casualmente durante una libera uscita, prima della partenza per il fronte su QUEVOR.
Era consuetudine per molti soldati cercare compagnia presso le "pleasure dome" delle città vicine alle basi, noleggiando i servizi degli stupendi androidi sterili (per chi non si fidava dei suoi simili) e anche il maggiore Koran non faceva eccezione a tale consuetudine.
Durante la sua permanenza nell'albergo dove alloggiava per il week-end con la sua bella e falsa donna, aveva intravisto dal corridoio, attraverso una porta socchiusa, una divisa riconosciuta subito per quella del sergente maggiore Yoshida.
Incuriosito da quella sorprendente verità (anche la splendida soldatessa dagli occhi a mandorla si lasciava prendere dalle voglie dei sensi!), Bruno aveva fatto capolino nella stanza e non vedendo nessuno aveva appena accennato uno scrupolo prima di lasciarsi guidare verso il suono della doccia, a pochi passi da lui.
L'aveva vista: sola e nuda, intenta a rilassarsi sotto lo scroscio fumante dell'acqua; ligia ad una tradizione della quale portava il marchio inconscio del suo popolo antico: il bagno caldo. Lui era rimasto a guardarla per un po', irretito dalla sua bellezza, poi era fuggito in preda ad una sorta di senso di colpa e un disagio fisico che gli veniva però da dentro.
Non era riuscito a far l'amore con l'androide (eppure ne aveva sognato le attenzioni tutte le notti trascorse prima della licenza), ancora turbato dalla visione del corpo abbronzato di Shusui, dai suoi muscoli appena accennati, dalle proporzioni stranamente poco giapponesi (chissà quali luoghi e quali eredità genetiche c'erano dietro il suo nome nipponico); era riuscito solo a cacciare via l'androide ed a resistere pochi lunghi minuti prima di spiare di nuovo la bella Yoshida durante il suo incontro d'amore.
Bruno credeva di essere diventato di colpo pazzo; forse era la reazione alla notizia di essere stati destinati al fronte e non la visione della donna, a fargli quell'effetto, sperava, ma non riusciva a pensare ad altro; forse Yoshida era solo la scusa trovata dai suoi nervi per tradirlo e mandarlo al diavolo all'ultimo momento...
Poco dopo si era trovato di nuovo alla porta (ancora insolitamente socchiusa) della camera del sergente.
Dentro Yoshida era vestita di una splendida e lunga veste, un kimono color seta grezza, chiuso in vita da una "obi" rosso sangue, seduta in disparte sul pavimento, gli occhi fissi su un vaso con fiori disposti in modo per lui bizzarro.
Nessun uomo od androide nella stanza oltre il sergente.
Bruno aveva osservato per pochi istanti, poi si era ritirato piano com’era arrivato ed era rimasto sveglio tutta la notte, alternando la visione di Yoshida nuda sotto la doccia con quella della sua meditazione silenziosa, stranamente felice per non averla trovata in compagnia.
Da allora il maggiore Koran non era più riuscito a vedere il sergente maggiore solo come tale e questo gli era d’enorme peso, considerando anche il fatto che da allora lei si era fatta sorprendere nell'atto di osservarlo con uno sguardo tanto tagliente quanto affascinante. Quello era l'unico rapporto che Bruno era riuscito ad avere con lei al di fuori di quello gerarchico, freddo e tecnicamente distaccato, anche se traspariva un interesse profondo verso l'altro in entrambi. Un rapporto fatto di lunghi, intensi sguardi, sempre a distanza; incontri silenziosi che terminavano con l’allontanarsi di uno dei due, richiamato dai loro obblighi.
Koran tornò al presente ed ai suoi uomini che si muovevano come se fossero parte del colore cupo diffuso ovunque, come fossero soffi di una brezza leggera.
Eppure ognuno di loro aveva nel suo intimo una tempesta piena di tuoni tanto forti quanto denso era il loro teso silenzio; ogni minima forma che appariva nel loro ristretto orizzonte era fonte di una nuova emozione, un colpo al cuore, la constatazione che ancora una volta avevano scambiato una roccia o delle macerie per un nemico.
Le costruzioni segnalate erano ormai prossime e tutti ricordavano perfettamente il punto indicato dagli esploratori per penetrare nella zona di pericolo.
Koran si fermò all'improvviso, imitato dagli altri; era stata Yoshida a farlo paralizzare solo con uno sguardo breve ed imperioso. Lei era pochi passi più avanti di tutti e aveva fatto solo un corto gesto con la sinistra, gesto captato dai sensori della sua tuta e inviato come segnale luminoso alle visiere degli altri: dove appariva il punto verde c'era un nemico.
Il sergente Yoshida consegnò il suo Colt-Centronics al comandante, che si chiedeva cosa volesse fare, poi allungò la mano verso l'impugnatura che fuoriusciva, accanto al ginocchio destro, dal fodero agganciato allo stivale dello scafandro.
Ne estrasse una lama ben diversa dal coltello che ognuno di loro aveva in dotazione: lei aveva uno spadino di oltre mezza yarda, una "wakizashi" degna di qualunque eroico quanto antico samurai.
La massa del nemico, appena distinta per qualche tratto regolare fra tanti particolari caotici attorno, si mosse appena, cambiando posa e scoprendosi nella sua conformazione ancora aliena agli occhi umani, abituati solo alle proprie consuete forme.
L'essere aveva come loro due gambe e un tronco sormontato dalla testa rotondeggiante, resa ancor più sferica dall'elmetto largo, ma sorprendeva (e dichiarava la sua diversa origine!) con le quattro braccia che punteggiavano il torace robusto.
L'essere fece qualche passo verso di loro ma doveva seguire un suo qualche pensiero perché sembrò non avvedersene fino al momento in cui Yoshida saltò fuori d'improvviso, leggera e terribile, tagliando l'elmetto e il cranio sotto di esso in un unico bagliore d'acciaio, bagliore che spense lo sguardo azzurrino dell jerras, atterrito dalla visione del nemico, da quella figura aliena con due sole braccia.
Shusui però non poteva aver visto quegli occhi nascosti dall'elmetto...

* * *


- Brutta storia, caro mio. - commentò Chet Arnasy porgendo una tazza di thé a Bruno.
- Mi dispiace d’essermi fatto prendere dal panico. Non avrei creduto di rivedere mai un'immagine come quella. - indicò appena il quadro, senza voltarsi a guardarlo.
Bevve un lungo sorso di thé e si appoggiò allo schienale comodo della poltroncina. Sentiva la presenza del dipinto al suo fianco come se fosse stata una sentinella con gli occhi fissi su di lui, un carceriere in attesa che finisse la sua ultima colazione per portarlo al patibolo.
- Come… come l'ha avuto? - si decise a chiedere.
- E’ un ricordo registrato su tela invece che su un cristallo o digidisk: è stata la scelta del suo possessore. L'unica differenza con una fotografia sta nel supporto di base e nella realizzazione; sono stati scelti colori in polvere mischiati ad acqua e fissati su tela di fibra vegetale invece di impressionare una carta fotografica od una pellicola magnetica. Se vuole le faccio vedere la stampatrice, è nella stanca accanto. Bel risultato comunque... degno del Pergamon Museum. - gli spiegò l'archeologo.
- Un notevole senso artistico. - commentò Bruno Koran - E chi é l'autore? -
Chet Arnasy sorseggiò il suo thé e porse un piccolo vassoio di ghiotti pasticcini a Bruno che rifiutò, in attesa della risposta.
- Talvolta gli uomini sono come città distrutte da cataclismi, sepolte dalla polvere del tempo: grandi tesori per noi archeologi. E’ un aspetto della curiosità umana: la ricerca attraverso quello che ci vive attorno o che è già vissuto in altri tempi o in posti diversi. Brutta maledizione quella di voler sapere, e lo sa perché? Glielo dico io! Perché un giorno arriva quella grande rompiscatole della Morte e dice che é scaduta la nostra tessera della biblioteca e che non ci daranno altri libri da leggere. Quel che hai saputo hai saputo e ti accorgi che non é niente in confronto a quello che volevi sapere! -
Finì di bere il suo thé e fissò negli occhi Bruno.
- La sto prendendo larga, vero? Magari penserà che sragiono. E’ che volevo farla arrivare a qualche constatazione fatta sia col cervello che con il cuore. Lei ha dei ricordi notevoli nonostante la giovane età, come supponevo; interessanti e importanti perché relativi a cose e tempi che pochi hanno avuto la possibilità di vivere. Ma si è mai chiesto cosa c'è dietro un essere umano? Aldilà dell'aspetto e di quello che si può leggere dai suoi dati identificativi? Abbiamo colonizzato quasi un centinaio di pianeti in diversi sistemi solari di costellazioni lontane dalla nostra originale e abbiamo mischiato le nostre usanze con quelle, altrettanto mescolate, di popoli un tempo diversi. Sarò partigiano se dico che più o meno tutti hanno dentro una vocazione allo scavo archeologico, talvolta solo per capire perché la loro pelle è appena più chiara o più scura di quella degli altri o perché i loro occhi hanno un taglio diverso... Siamo tutti archeologi, mio caro! Lo siamo o cerchiamo inconsciamente di esserlo, spesso senza accorgerci di quello che è il limite dell'Archeologia: ritroviamo gli oggetti e le case degli uomini antichi, i loro quadri, le loro case e strade, talvolta anche qualcosa dei loro poveri corpi consunti. Tutti aspetti esteriori della loro esistenza ma niente dei loro effettivi sentimenti, dei loro pensieri. Certo l'Arte è eterna, MA NON E` MAI l'Artista, mai rappresenta la minima emozione che ha portato l'Uomo a fare una scelta. Sa, amico mio, quale sarebbe l'ottimo quadro di un sentimento? Glielo dico io: una semplice lacrima. Ci sono anni di sentimenti dietro una lacrima, gioie esaltanti e delusioni terribili; dolori immensi conosciuti solo da chi li ha provati.
Lei voleva sapere chi è l'artista di quell'immagine? Ebbene l'autore di quel quadro l'ho rivisto poco fa attraverso la sonda mentale: era nei suoi ricordi, anche se quando l'ho vista io non era più lo stesso essere di allora. Era l'archeologia del suo passato il suo unico interesse, la riscoperta di qualcosa del passato della sua razza per cercare di mutare il proprio futuro imminente. Quel quadro era il tentativo di liberare la sua mente da situazioni che non aveva scelto, ma che aveva purtroppo vissuto e da un periodo della sua vita e da un uomo. Lei, caro il mio curioso! -
Bruno Koran spalancò gli occhi e la bocca.
- Io? - mormorò - Perché proprio io? Non sono mai stato un comandante autoritario e ho sempre dato stima contro stima ai miei uomini. Perché io allora?-
- Ai suoi uomini, maggiore; ma alla sua donna? Cercava lei dietro le armature nipponiche che voleva vedere prima? Nei bagliori chiari dell'acciaio forgiato cercava forse il brillìo pulito della sua anima di femmina? L'ho riconosciuta subito nei suoi ricordi. Venne a vedere il museo un paio di anni fa, un giorno come tanti altri, noioso nell'attesa di qualcuno che avesse una storia da raccontarmi: la stessa storia di oggi e che finiva con quell'esplosione... - indicò il quadro - ...ma vista da un'altra angolazione, da un altro paio di occhi. -
- Shusui Yoshida... - boccheggiò Bruno.
- Già. Uno dei suoi "uomini".- mormorò Chet Arnasy, come se stesse facendo chissà quali considerazioni - ...eppure lei deve essere stato davvero un ottimo ufficiale, stimato dai superiori e dai subalterni. E’ un peccato che non sempre lei abbia capito i "suoi uomini". -
Gli fece cenno di seguirlo in un’altra stanza e gli indicò una poltroncina dinanzi ad un visore bi-oculare di un video-riproduttore Kensington. Cercò poi in uno schedario magnetico digitando una serie di codici; avuta la risposta su un display prese un "videocube" e lo inserì nel fianco del Kensington.
- Si guardi questo.
- disse semplicemente azionando l'avvio; poi si allontanò lasciando Bruno solo con la registrazione.

* * *
Entrare nella prigione e neutralizzare i pochi soldati jerras che la presidiavano, disattivando anche i congegni di sicurezza, non era stato troppo impegnativo per la squadra del maggiore Koran.
Diverso invece era stato uscire allo scoperto e raggiungere, a tre miglia da lì, il punto di recupero dove i mezzi di salvataggio avrebbero portato via loro ed i sessantatré prigionieri liberati; erano tutti piuttosto confusi e certo non di grande aiuto ai loro liberatori in quella marcia. Il pericolo era un arrivo in forze di altre truppe ostili, avvertite forse prima che il presidio fosse del tutto ridotto al silenzio.
Apriva la marcia un gruppo di sei soldati agli ordini del maggiore Koran, mentre dietro di loro si snodava il piccolo corteo dei liberati, avvolti nelle maschere ad aria rigenerata date loro dai Rangers del gruppo d'assalto.
Chiudeva il corteo il ventaglio degli altri sette Rangers capeggiati da Shusui.
Negli occhi orientali del sottufficiale non c'erano solo le ombre dei colleghi poco distanti ma anche quelle dei mille invisibili nemici con quattro braccia, ombre proiettate ai suoi occhi dal cervello violentato dalle preparazioni psichiche che le avevano stampato in fondo alla mente sul Pianeta della Guerra.
Lei vedeva tutto come filtrato attraverso una rete appena palpabile di visioni registrate e non cancellabili, immagini che popolavano la sua attenzione sprezzante.
Fu proprio grazie a questo che riconobbe, prima ancora che gli occhi ne avessero captato a fondo il movimento, il leggero vibrare di una figura scura, l’accenno di un movimento ad arco di un braccio robusto collegato ad un'arma a raggio, arma che lei aveva già visto funzionare in un'altra battaglia.
Shusui sparò ancor prima di averlo pensato, sapendo già a cosa sparava e perché.
Erano ormai prossimi al punto di raccolta ma erano stati intercettati da una squadra jerras che cercava di tagliare in due il piccolo esercito umano.
Shusui tentò di capire dai lampi dei laser che intravedeva più avanti, se anche gli altri del gruppo erano ancora tutti vivi o se qualcuno era stato colpito... E Bruno? Dov'era?
Da una serie di ordini via interfono seppe che lui era ancora il loro comandante.
- Maggiore, noi facciamo una diversione d'attacco verso i nemici! Porti via i prigionieri! - trasmise al suo ufficiale e chiuse il contatto prima di sentirsi ordinare  qualcosa di contrario alla sua idea.
Inviò un paio di segnalazioni luminose alle visiere del suo gruppo e si lanciò verso il nucleo della squadra jerras intravisti poco distante.
La penombra dell'atmosfera fu aperta dei chiarori aranciati dei laser da battaglia dei loro Colt-Centronics, intervallati dalle vampe azzurrine delle canne da fuoco.
Mentre i jerras opponevano un fiume di raggi biancastri al contrattacco umano, apparvero in alto le sagome dei mezzi di recupero, scortati da un paio di velivoli da combattimento.
I jerras furono sommersi dal fuoco delle armi di bordo dei due elijets ed i Rangers tirarono un sospiro di sollievo. Shusui intravide il gruppo di Bruno al riparo dietro una massa rocciosa con i prigionieri in salvo, questi ultimi rivolti verso il mezzo in atterraggio dietro di loro.
- Sergente rientrate... Bastano gli elijets a coprirci. Venite via, cessate la diversione! - ordinò Bruno nell'interfono di Yoshida. Lei fece solo un cenno con la sinistra e l'interprete elettronico segnalò agli uomini l'ordine di ritirata, poi comunicò al comandante che stavano eseguendo l'ordine.
Mentre arretrava, continuando a far fuoco sulle ombre che intravedeva dietro di lei, ebbe la fuggevole visione di un mezzo volante che sembrava avvicinarsi, basso sull'orizzonte scuro.
Aveva già visto un mezzo del genere e sapeva che i suoi occhi, avvertiti da un particolare registrato nel suo cervello, non potevano essersi sbagliati.
Quello era un "carro volante"...
" Speriamo di no! " pensò ma lo sapeva che il totalbrain raramente sbagliava ricordo.
La sua squadra fece cerchio attorno al portellone del mezzo in attesa che l'ultimo dei prigionieri salisse. I due mezzi di protezione continuavano a scorrazzare a balzi irregolari nell'aria pesante ed a colpire i jerras ancora in cerca di loro.
Uno degli elijets schivò miracolosamente un raggio pallido che era arrivato dall'orizzonte e la voce del pilota si interpose via radio a quelle dei Rangers, che si scambiavano indicazioni sul recupero dei prigionieri.
- Carro volante ad ore due! Levatevi di torno alla svelta, quella è una best... - la voce s’interruppe nel momento dello scoppio che spezzò in due tronconi il suo apparecchio.
Il pilota del mezzo di soccorso subito ordinò di salire, altrimenti li avrebbe piantati lì con i jerras e il loro carro volante.
Yoshida fece un paio di gesti imperiosi agli ultimi prigionieri, sollecitandoli a salire sul mezzo di recupero. L'elijet rimasto ballava nell'atmosfera fra un raggio e l'altro del carro volante, sparando all'impazzata un po’ ai nemici a terra, un po’ all'avversario in lento avvicinamento.
- Yoshida, vieni via! – ordinò Bruno dall'altro mezzo di recupero, mentre il pilota lo faceva alzare da terra. Il maggiore sparì nel portellone con un salto agile, affacciandosi poi di nuovo per fargli un nuovo invito a salire.
Shusui gli fece cenno con la mano e spinse gli ultimi prigionieri sul secondo mezzo che stava già vibrando per i motori al massimo. Sparò poi una raffica laser verso delle ombre che si erano avvicinate e saltò sulla piattaforma del velivolo che iniziava ad alzarsi. Dette ancora un'occhiata all'altro mezzo, pensando che Bruno era ormai in salvo. Urlò al pilota di andarsene ma di aspettare ancora a chiudere i portelli e fu in quell'attimo che l'astronave di Bruno, già più in alto di loro, esplose per un raggio del carro volante.
Shusui urlò.
Urlò con tutto quello che aveva in corpo, con la voce e con gli occhi, con l’anima e con il cervello che stava già registrandosi inesorabilmente anche quell'immagine rosso fuoco...
* * *
Bruno si asciugò il sudore che la visone della registrazione gli aveva rovocato.
Riviveva l’episodio: erano precipitati al suolo avvolti dal fuoco nei tronconi dell'astronave abbattuta e molti erano morti subito. Altri erano sopravvissuti poche ore anche se i jerras che li avevano catturati avevano tentato di salvarli.
Lui era stato più fortunato ma era rimasto prigioniero dei Jerras fino alla fine del conflitto, otto mesi dopo.
Mesi durante i quali aveva imparato molto sulla razza dei suoi nemici, sui loro pensieri, su quanta civiltà ci fosse nella loro storia e su quanto assurdo fosse il fatto che una razza di quelle tradizioni dovesse scontrarsi con un'altra altrettanto ricca di storia come quella umana.
Guardò il direttore del museo, apparso sulla soglia della stanza: non si dissero niente, entrambi consapevoli di tutto quello che ognuno ormai sapeva od intuiva.
Restava solo un particolare da chiarire.
- Dov’è lei adesso? - domandò Bruno.
- L'universo è grande. - Arnasy fece un gesto circolare con la mano per accompagnare quanto detto.
- Sono anni che lo giro: cercherò ancora. - dichiarò Bruno deciso.
- Si, credo sia la verità. Per questo voglio darle qualcosa per il suo lungo viaggio: ecco...- si alzò e si avvicinò a una tastiera per digitare qualcosa. Lesse un'indicazione sul display e frugò in un cassetto di schede - Questo è l'indirizzo di Shusui Yoshida. Abitava qui in città e credo che ci abiti ancora. -
Bruno Koran prese il biglietto e fece per allontanarsi.
- Grazie. A proposito: non credo che le venderò i miei ricordi. Possono ancora servirmi. Addio, Archeologo. Grazie di tutto. -
- Le ho soltanto offerto un thé e dei biscotti che non ha assaggiato: perché ringraziarmi? - sorrise l'archeologo - Suppongo che non le interessino più le armature che voleva vedere? -
Bruno ormai non lo sentiva più, rivolto verso l'uscita, ripulita intanto dai sacchi dei rifiuti. La raccolta funzionava ancora bene.
Si voltò come se si fosse ricordato (o dimenticato) qualcosa.
- Perché mi ha detto che era un LUNGO viaggio se Shusui abita in città? - domandò.
Chet Arnasy si strinse nelle spalle.
- Crede proprio che sarà breve? Misuri le sue emozioni e tutti i ricordi che le passeranno per la testa; provi a dare risposta a tutte le domande che le verranno alle labbra e poi tiri la sua conclusione: viaggio breve… o lungo? - finì con un gesto che somigliava ad una benedizione e anche ad un congedo definitivo.
Fuori del giardino Bherleen brulicava di persone mosse verso le loro occupazioni o dalle scadenze che il mezzodì ricordava loro.
Si lasciò alle spalle la Unter Den Linden Alleé e tutta la sua folla e si infilò nella più quieta Bender Strasse.
Vide la vetrina prima ancora di poterla distinguere pienamente; c'era qualcosa che attirava il suo sguardo, un segnale che percepiva a fior di pelle, sotto coscienza.
Nel riverbero azzurro del vetro del negozio (ci si specchiava la palazzina di fronte, austera e di quel colore) spiccava la chiazza arancione di un grosso fiore, forse una alectome di EARTH/2, una sorta di grossa orchidea gigliata dai colori vividi.
Si fermò di fronte alla vetrina e osservò la composizione floreale: sembrava un'ulteriore accenno all'esplosione dell'astronave avvenuta otto anni prima, salvo per i due tralci fioriti e di diverso colore che si dipartivano dal fiore verso l'alto.
Un cartellino sotto il vaso portava scritto "INSIEME" ed era l'unica spiegazione.
Guardò gli ideogrammi che sovrastavano la maniglia della porta e sorrise, riconoscendone il significato.
" Ikebana." mormorò. Era quello il posto.
Aldilà del vetro intravide una figura: l'ex sergente maggiore Shusui Yoshida stava fissando l'ex maggiore Bruno Koran, chiedendosi se fosse una visione dettata dal suo cervello, un "kami" maligno venuto a tormentarla, o se incredibilmente fosse proprio Bruno Koran, sopravvissuto a quello che sembrava impossibile superare.
Si fissarono a lungo, chiedendosi ognuno se davvero ci fosse l'altro aldilà dello schermo trasparente oppure una propria allucinazione disperata.
Ma erano entrambi combattenti valorosi e anche se il coraggio ci abbandona  spesso quando meno ce lo aspettiamo, tutti e due avrebbero affrontato quella nuova battaglia: ritrovarsi e spiegarsi l'un l'altra il come ed il perché.
Note dell'Autore:
ci sono riferimenti chiari alla città di Berlino come il nome stesso e quello del museo, uno dei più importanti, e anche nei nomi delle strade. Il nome del pianeta naturalmente è Terra/2.

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